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Sulla spiaggia - come sopravvivere agli anni 60 di Paolo Vites

Ultimo Aggiornamento: 14/11/2007 00:50
14/11/2007 00:50

Sulla spiaggia - come sopravvivere agli anni 60

I am a lonely visitor
I came too late to cause a stir
Though I campaigned all my life
towards that goal
I hardly slept the night you wept
Our secret's safe and still well kept
Where even Richard Nixon has got soul
Even Richard Nixon has got
Soul

(Neil Young, Campaigner)

C’era una volta una generazione che aveva sognato di cambiare il mondo. Non era tanto un problema di sistemi politici in cambio di altri. Era piuttosto uno stile di vita contro l’altro. C’è una scena magnifica, nel bel – seppur dimenticato – Taking Off, film che Milos Forman girò appena giunto negli Stati Uniti, fuggito dall’occupazione sovietica della sua Cecoslovacchia, che coglie meglio di quanto hanno fatto molti americani quello che succedeva proprio negli Stati Uniti alla fine dei 60. Una ragazza convince i genitori a invitare a cena il suo fidanzato. Quando gli aprono la porta, trovano il classico hippie dai capelli e dalla barba lunga da cui avevano sperato di tenere lontano la figlia. La cena procede nel massimo imbarazzo e freddezza, fino a quando il padre chiede al giovane che lavoro faccia. Questi dice di avere uno studio dove si registrano i dischi di musica rock. Il padre sorride, come dire, ecco qui bambina mia, te lo avevo detto che si tratta di balordi senza una lira. Gli chiede, sogghignando, quanto guadagna in un anno. Lui risponde pensieroso diverse decine di migliaia di dollari. Praticamente il doppio o forse anche più di quello che il pover’uomo guadagna con la sua onesta professione di assicuratore o impiegato di banca.
Della serie: c’è un tipo nuovo in città, i tempi sono cambiati.



Di fatto, quella generazione con i suoi sogni e utopie stava veramente cambiando il mondo. Avevano eclissato il concetto di matrimonio, proclamando l’amore libero e lo scambio di coppia, anche i rapporti a tre, come li cantò David Crosby nella sua Triad, e ad esso opponevano la vita nelle comuni; avevano superato le porte della percezione decretando il potere delle droghe come superamento delle leggi fisiche e del concetto di realtà come fino allora era conosciuto; avevano inventato una poesia sonica, che non si leggeva più nei libri, ma si ascoltava dai dischi e nei concerti; stavano fermando una guerra, quella in Vietnam, con le marce nelle strade.
Credevano fermamente nell’idea di pace & amore universali e quando a Woodstock, in un campo di patate trasformato in una immensa latrina di fango, si contarono e videro che erano un milione e più, pensarono di aver vinto.
Durò poco, però. Solo pochi mesi dopo le belle vibrazioni di Woodstock, a un altro festival, ad Altamont, uno del servizio d’ordine decise che per calmare i turbolenti spiriti di uno spettatore ci volesse una bella coltellata nella schiena. Come si inaugurò il nuovo decennio, poco dopo quel festival, cominciarono a cadere giù come pere molli da un albero uno dopo l’altro quegli eroi che avevano infiammato gli spiriti, e grazie a quella cosa che sembrava averli liberati da ogni costrizione delle passate generazioni: la droga. Janis, Jimi e infine Jimi, nel giro di un anno alcune delle menti migliori di quella generazione, erano dei cadaveri, belli come quando si muore giovani, ma pur sempre cadaveri, Li aveva preceduti un altro Mister J, Brian dei Rolling Stones. A dare il colpo di grazia ci pensò uno di loro, un hippie fondatore di una vivace comune, che pensò che bisognasse uccidere tutti i ricchi per far trionfare il mondo nuovo. Con una strage di esagerata crudeltà, gli adepti di Charles Manson un bel giorno massacrarono gli ospiti della bella attrice Sharon Tate, moglie del regista Roman Polanski, e lei stessa, nonostante il pancione in cui stava portando un figlio. Sulla pancia squartata scrissero “pig”, maiale, e sui muri con il sangue delle vittime scrissero Helter Skelter, che era il titolo di una bella canzone dei Beatles.



Adesso rock’n’roll non faceva più rima con pace & amore, adesso era sangue & morte. Da gran saggio come era, il buon John Lennon capì che i tempi erano cambiati, di nuovo. Mentre i Beatles – che avevano incarnato lo spirito stesso degli anni 60 con tutto ciò che di bello aveva rappresentato – se ne andavano per quattro strade diverse, dichiarò sommesso: “The dream is over”. Il sogno è finito.
Qualcuno fece spallucce e cominciò a meditare di tornare nel sistema. Altri se la presero a male e ci misero anni per tirarsi fuori da tutto questo catafascio morale che aveva ucciso i loro sogni più belli.



C’è un disco, uno solo, che racconta tutto questo trauma. Lo fa in modo crudo, fastidioso, cinico, a tratti suonato in modo sconclusionato, in altri cantato con la voce impastata di chi ha bevuto troppo per dimenticare, ma lo fa in modo onesto. Sin dalla copertina, un signore a metà strada tra un hippie (i capelli lunghi) e il turista per caso di buona borghesia (la giacca, i pantaloni eleganti) a sottolineare l’incertezza per quale identità indossare, adesso che il sogno è finito. Intorno a lui oggetti balordi (un missile, un ombrellone) a sottolineare il caos in cui si dibatte, sta di spalle su una spiaggia deserta e dai colori lividi. Disperazione che poi, nel disco, si toccherà a piene mani. C’è Charles Manson, in Revolution Blues (“Ho sentito dire che il Laurel Canyon è pieno di star famose, ma le odio più della lebbra e le ucciderò tutte”), c’è il rapporto di coppia, pensato perfetto, che invece va in pezzi, in Motion Pictures; c’è – nella title-track - la rock star abbattuta e incapace di guardarsi davanti che durante una intervista radiofonica vede il suo interlocutore addormentarsi davanti a lui per aver fumato uno spinello di troppo(episodio veramente accaduto a Neil Young), tanto è ormai l’interesse che questi musicisti rock sanno destare. Mentre la realtà stessa sfugge di mano (“Il mondo sta girando, spero non scappi via”), insicuro ormai del suo stesso ruolo (“Ho bisogno della gente, ma non sono capace di affrontarli giorno dopo giorno”).
Già nel primo pezzo, l’apparentemente ottimistica Walk 0n (“tira dritto”) aveva denunciato la separazione avvenuta fra l’uomo-artista e quelli che fino a poco prima lo avevano osannato come portavoce di una generazione: “Sento certa gente parlare male di me, tirano fuori il mio nome, lo fanno circolare, non fanno menzione dei bei tempi”. Poi l’ammissione di umana incapacità a dare delle risposte a chi se le attende, mentre tutto scivola nel disfacimento: “È difficile cambiare tutto ciò, non sono in grado di dire loro come debbano sentirsi, alcuni vanno fuori di testa, altri si comportano in modo strano, ma prima o poi, tutto diventa reale”.
Accettare il reale sembra l’unica coraggiosa opzione, perché in Vampire Blues lo dice chiaramente: “I bei tempi stanno arrivando, lo sento dire ovunque, ma sicuramente ci stanno mettendo un bel po’”. Troppo tempo, la vita non aspetta.



E poi c’è uno dei massimi esempi di canzone rock mai incisi, un autentico documentario in diretta, un piccolo guerra & pace della sopravvivenza hippie. Con alcune delle accuse più taglienti mai rivolte agli altri, a se stessi, alla propria inadeguatezza di vivere.
Ambulance Blues (e il titolo fa già pensare a uno che deve star proprio male) comincia ricordando i bei giorni in cui tutti i sogni erano interi, e la giovinezza sembrava sconfiggere ogni cosa, ma poi qualcuno si è approfittato della bella Isabella (la sua generazione?) e l’ha fatta a pezzi.
Fa capolino Mother Goose, personaggio delle fiabe per bambini, ma anche lei adesso che si è diventati adulti non può più consolare nessuno. “È difficile dire il significato di questa canzone” si chiede a un certo punto lo stesso Neil Young, ed è una ammissione feroce e coraggiosa, per uno che cantava di cambiare il mondo. Adesso non sa neanche più di cosa canta. “È facile seppellirsi nel passato quando cerchi di far durare una bella cosa”. Poi alza la testa, in un moto d’orgoglio, davanti a quei soloni, a quei maitre de pensiere che lo stanno attaccando per aver abbandonato la canzone militante: “E voi critici, sedetevi da soli, voi non siete migliori di me per quello che mostrate, potremmo metterci tutti insieme a fare un po’ di cazzate”, un film dell’assurdo che è diventata la vita. Ma quali utopie, quali ideologie, sembra dire quest’uomo che sta vedendo morire di eroina i suoi migliori amici come il chitarrista della sua band, Danny Whitten.
Poi, con un colpa di coda che sfodera un ultimo scorcio di umorismo tagliente ma efficacissimo, il nostro si gira, lo immaginiamo con il ghigno devastante che capeggia nelle foto del disco successivo, il lugubre canto di morte Tonight’s The Night, e ci dice tutto quello che c’è da dire: “Lo sento ancora che dice: state tutti pisciando nel vento. E non c’è nulla come un amico che vi dice che state pisciando al vento”. Con buona pace di chi voleva cambiare il mondo, la vita è più grande di noi, ci supera da ogni parte ogni volta che pensiamo di possederla: stiamo solo pisciando nel vento.

Resta, alla fine, un barlume di speranza, nelle accorate parole della bella See The Sky About to Rain: “Guada il cielo quando sta per piovere. Alcuni sono destinati alla felicità, alcuni alla gloria, alcuni a vivere con meno. Ma chi può dire il tuo destino?”.
Mai, in un disco rock, la domanda di significato della vita era stata espressa in modo più coraggioso. E mai più lo sarà.




On The Beach, Neil Young (Reprise, luglio 1974). Un capolavoro (da ascoltare obbligatoriamente tra Times Fade Away e Tonight’s The Night, una trilogia indissolubile)

Paolo Vites
Ottobre 2007

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